Recenti sviluppi giurisprudenziali su mobbing e straining nel contesto lavorativo

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Nuove sentenze della Cassazione ampliano la tutela dei lavoratori contro mobbing e straining, rafforzando la responsabilità dei datori di lavoro nella prevenzione dello stress lavorativo.

Negli ultimi mesi, la giurisprudenza italiana ha affrontato con attenzione crescente le tematiche del mobbing e dello straining sul luogo di lavoro, fornendo chiarimenti significativi sulla tutela dei lavoratori esposti a condizioni lavorative stressanti o vessatorie.

Mobbing e straining: definizioni e differenze

Il mobbing si riferisce a una serie di comportamenti vessatori, sistematici e prolungati nel tempo, attuati con l’intento di emarginare o danneggiare un lavoratore. Al contrario, lo straining indica una forma attenuata di mobbing, caratterizzata da azioni stressogene isolate, prive della continuità tipica del mobbing, ma comunque in grado di compromettere la salute psicofisica del dipendente.

Evoluzione giurisprudenziale: dalla rilevanza sociologica a quella giuridica

In passato, le nozioni di mobbing e straining erano considerate principalmente di natura sociologica e, pertanto, spesso ritenute irrilevanti ai fini giuridici. Tuttavia, recenti pronunce della Corte di Cassazione hanno modificato questo approccio, riconoscendo la responsabilità del datore di lavoro anche in assenza di un disegno persecutorio sistematico.

Ad esempio, nella sentenza n. 31912 dell’11 dicembre 2024, la Cassazione ha affermato che ciò che rileva è la presenza di una condotta datoriale illegittima, anche solo colposa, che consenta il mantenimento di un ambiente lavorativo stressogeno, causando danni alla salute dei lavoratori. Questo orientamento sottolinea l’obbligo del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 2087 c.c., di prevenire situazioni che possano ledere l’equilibrio psicofisico dei dipendenti.

Caso emblematico: trasferimento forzato e riconoscimento del danno da mobbing

Un caso significativo riguarda un dipendente di una cooperativa di servizi di manutenzione ospedaliera, costretto a percorrere quotidianamente 350 km per raggiungere il luogo di lavoro, a seguito di un trasferimento ritenuto ingiustificato. Oltre al pendolarismo forzato, il lavoratore ha subito altre vessazioni, come l’esclusione dalla formazione e l’assegnazione alla cassa integrazione a zero ore.

Dopo una lunga battaglia legale, il tribunale ha riconosciuto il diritto del dipendente a un indennizzo per danno biologico, quantificato nel 20%, correlato a disturbi dell’adattamento con ansia e depressione, derivanti dalle condotte mobbizzanti subite.

Responsabilità del datore di lavoro nella prevenzione dello stress lavorativo

La giurisprudenza recente ha ribadito la responsabilità del datore di lavoro nella prevenzione dello stress lavoro-correlato, anche in assenza di comportamenti configurabili come mobbing. In particolare, la Cassazione ha sottolineato che l’art. 2087 c.c. impone al datore di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità psicofisica dei lavoratori, prevenendo situazioni di stress o conflitto che possano arrecare danno.

In una sentenza del 12 febbraio 2024, la Suprema Corte ha evidenziato che, anche in mancanza di un intento persecutorio, il mantenimento di un ambiente lavorativo stressogeno costituisce una violazione degli obblighi datoriali, rendendo il datore responsabile dei danni subiti dal dipendente.

Conclusioni

Le recenti pronunce giurisprudenziali evidenziano un’attenzione crescente verso la tutela dei lavoratori esposti a condizioni lavorative nocive, ampliando la responsabilità dei datori di lavoro nella prevenzione e gestione dello stress e delle vessazioni sul luogo di lavoro. È fondamentale per le aziende adottare misure proattive per garantire un ambiente lavorativo sano, prevenendo non solo il mobbing, ma anche forme meno evidenti di disagio lavorativo come lo straining.

Immagine: Corte di Cassazione, Roma, cortesia Paolo Centofanti, direttore Fede e Ragione.